Torino – Negli ultimi decenni, gli studi sul mondo economico e sociale Romano: la necessità di dare vita ad una storia più esaustiva ed inclusiva, in grado di andare al di là delle conoscenze politiche e di darsi una prospettiva integrata, ha portato allo sviluppo di questi nodi tematici, in passato analizzati solo da alcune scuole storiche (si pensi a quella analitica francese e agli studi storico economici sul Mediterraneo di Aldo Schiavone). Proprio in questa direzione di indagine storica si inserisce il breve ma ottimo saggio di Egidio Incelli, “La Figura del Liberto Imperiale” (Quasar, 2018). Un testo, dicevamo, agile, ma che analizza in modo puntuale alcuni problemi dell’imprenditorialità del mondo romano.
La schiavitù, nel mondo Romano, era un mondo assolutamente complesso e ricco di contraddizioni. Se la gran parte degli schiavi veniva destinata a lavori usuranti e massacranti nelle miniere o nei latifondi, altri potevano condurre affari per conto del padrone ed esercitare professioni liberali come quella di medico e di precettore, con la concreta possibilità di essere liberati dal padrone stesso, diventando dei “liberti”, una condizione che li rendeva liberi e dava anche la possibilità ai figli dei liberti stessi di diventare cittadini Romani di pieno diritto.
Nel libro di Incelli, vengono spiegate alcune delle dinamiche sociali ed economiche che consentivano ai liberti di “farsi strada” nel mosaico sociale dell’Impero e della Tarda Repubblica. A partire dalle fonti letterarie, tra cui il Satyricon di Petronio, é possibile tracciare alcune storie di vera e propria ascesa economica ad alti livelli di alcuni personaggi di estrazione libertina. Allo stesso tempo, non mancano anche le documentazioni epigrafiche e letterarie di personaggi di estrazione più umile, a loro volta liberti di liberti, che si erano conquistati la libertà ma non l’agiatezza economica.
A partire dall’Impero di Augusto, inoltre, i ricchi liberti furono gratificati con incarichi in alcuni collegi pubblici, dedicati al culto dell’Imperatore, rendendoli parte del sistema di potere su cui si reggeva l’Impero. Questi ricchissimi liberti, che esercitavano spesso professioni inerenti la finanza e il commercio di denaro (pratiche vietate ai senatori), non costituirono mai una vera e propria classe sociale in senso moderno, in quanto aspiravano ad un ingresso nel rango senatorio per i propri discendenti, per i quali erano disposti a cedere le proprie partecipazioni finanziarie, investendo poi in latifondi, che costituivano l’anticamera dell’accesso al Senato. Il libro di Incelli, preciso nel riconoscere queste dinamiche e appassionante anche per i non specialisti, rappresenta un’ottima base di partenza per proseguire gli studi su questa “grande borghesia” mancata, vissuta quindici secoli prima della Rivoluzione Industriale. Luigi M. D’Auria