Torino – In un 2020 che continua a riservare sorprese negative, il mondo della diplomazia é preoccupata dal riacutizzarsi del conflitto tra Azerbaigian, Armenia e Nagorno Karabakh, autoproclamata Repubblica sulle montagne del Caucaso. Si tratta di un conflitto ereditato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, rimasto spesso latente (gli ultimi deboli scontri erano avvenuti nel 2012 e nel 2016), ma arricchitosi di elementi nuovi in queste ultime settimane, che lasciano presupporre scenari sinistri per la stabilità di questo angolo di mondo.
Dal punto di vista storico, questa piccola regione fertile e ricca di boschi (il Nagorno ha la stessa estensione del Molise e metà degli abitanti) si trova in una posizione scomoda fin dagli anni Venti, quando Stalin scelse di toglierlo all’Armenia (a cui era legato dal punto di vista culturale e religioso) e assegnarlo all’Azerbaigian, Stato a predominanza mussulmana. La disgregazione dell’Urss, come accennato in precedenza, ha scatenato il caos, con il Nagorno-Karabakh che si é autoproclamato indipendente fin dai primi anni Novanta.
Ad oggi, la situazione umanitaria e politica della regione appare difficilissima. Diversi bombardamenti sulle città nemiche sono stati compiuti dall’esercito azero, anche utilizzando droni, che quasi certamente sono stati forniti dalla Turchia, storico alleato della caucasica. Diverse fonti internazionali, inoltre, hanno documentato la presenza di combattenti jihadisti in città turche dell’interno, pronti ad intervenire come mercenari. All’atteggiamento aggressivo del Presidente Erdogan, l’Armenia (che accusa la Turchia di voler ripetere le politiche di genocidio del popolo armeno) ha reagito iniziando le pratiche formali per il riconoscimento del Nagorno-Karabakh e inviando al fronte una grande quantità di volontari (molti dei quali giovanissimi, nati anche nel nuovo millennio), rinforzando anche la sua presenza in una serie di distretti azeri su cui operava delle forme di controllo da diversi anni. Ad oggi, però, l’esercito armeno non sembra in grado di resistere ad un’eventuale attacco su larga scala, che potrebbe distruggere diverse città della regione e luoghi di culto che testimoniano una fede e una cultura plurisecolare.
Una soluzione diplomatica sarebbe, ovviamente, quella più auspicabile per la tutela della sicurezza dei cittadini. Raggiungere un accordo, peró, implicherebbe la fine dell’atteggiamento aggressivo della Turchia e una presa di posizione chiara della Russia (che ha mediato un fragile cessate il fuoco, ma ha importanti relazioni commerciali con entrambe le parti). L’Unione Europea e in particolare la Francia (soprattutto dopo che due reporter francesi sono stati gravemente feriti in un bombardamento azero) spingono per una soluzione che riconosca lo status del Nagorno. In un mondo che combatte contro una pandemia globale e dove persistono più di 150 conflitti violenti, dunque, una soluzione diplomatica, che salvaguardi le popolazioni locali, resta l’unica praticabile per evitare un allargamento delle tensioni fra le grandi potenze locali e internazionali e salvaguardare un popolo che negli ultimi due secoli ha subito più volte episodi di violenza e pulizia etnica. Donato D’Auria